L’intervento per rassicurare l’Europa e i mercati. Il premier e il pressing dei partiti: niente cedimenti preelettoraliROMA - Mario Monti, al telefono con i suoi collaboratori, ha ragionato a lungo se procedere o meno con la smentita del piano taglia-Irpef. Poi ha dettato la nota perché, a suo giudizio, il silenzio sarebbe stato fragoroso. Avrebbe potuto provocare un vulnus alla credibilità del sistema-Italia e introdurre un «elemento di fragilità»: il governo succube del desiderata dei partiti, ormai prossimi alla campagna elettorale.
Il professore ha confidato di essere il primo a voler abbassare le tasse e che questo dovrà essere il traguardo nel medio-lungo periodo del governo che gli succederà. Ma ora, alla vigilia di una lunga campagna elettorale, non smentire il presunto piano poteva apparire come un cedimento al pressing dei partiti e come l’abiura della politica del rigore e del consolidamento delle finanze pubbliche. «Con quella nota», dice un suo stretto collaboratore, «il premier ha voluto rassicurare l’Unione europea, i partner internazionali, i mercati finanziari, che non ci sono arretramenti rispetto alla messa in sicurezza dei conti. Né ora, né in campagna elettorale, né dopo di lui».
Non è casuale questo riferimento al dopo. Alla successione. Dall’Engadina, Monti lunedì ha osservato con interesse la proposta del leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, di un preambolo. Di un patto politico pre-elettorale con cui i partiti che vi aderiranno, rassicurino Bruxelles e le cancellerie europee sul rispetto (anche dopo le elezioni di primavera) degli impegni assunti dal professore. Rigore di bilancio in primis. «Tutto ciò che tranquillizza partner e mercati è il benvenuto».
Il professore infatti teme la lunga campagna elettorale che si aprirà di fatto in settembre. E un preambolo europeo ed europeista firmato da Pd, Pdl e Udc sarebbe salutare. Ma per mettere in sicurezza il governo, per fargli assumere una volta per tutte un ruolo di neutralità che lo strappi e lo preservi dalla conflittualità elettorale, Monti negli ultimi tempi ha fatto di più. Ha mandato - e continua a mandare - segnali a Pier Luigi Bersani, a Silvio Berlusconi e a Casini. Con un unico messaggio: non ho intenzione di restare a palazzo Chigi. «Mi sono sempre trovato molto a mio agio a palazzo Giustiniani dove conservo una piccola stanza e lì sono pronto a tornare appena finita la mia esperienza a palazzo Chigi», ha detto qualche giorno fa a un interlocutore interessato. L’obiettivo è chiaro: far calzare al governo l’elmetto da casco blu dell’Onu, strapparlo al fuoco incrociato.
Certo, il professore sa bene che non spetta a lui decidere il suo destino. Che molto dipenderà dalla legge elettorale, dai risultati conseguiti dai singoli partiti, e dai giochi che si apriranno in Parlamento dopo il voto. E che dunque un bis non è escluso, come non è da escludere il Quirinale: come insegna l’esperienza di Giorgio Napolitano, dal Colle è possibile offrire garanzie all’Europa e vigilare sul rispetto degli impegni internazionali. Ma intanto Monti lavora per strappare il governo dai fumi e dalle polveri delle artiglierie. E soprattutto a preparare la sua successione. Come? Garantendo in ogni conversazione fuori confine che chi gli succederà saprà dare continuità all’azione di governo. L’ha fatto con Francois Hollande, Angela Merkel, Mariano Rajoy. L’ha fatto, assicurano nel suo entourage, anche con Vladimir Putin e perfino con il suo più grande sponsor: Barack Obama. Più o meno con queste parole: «I partiti che mi sostengono non sono certo nemici del rigore, anzi. Senza di loro nulla sarebbe stato possibile. Hanno sostenuto in Parlamento le riforme con una tempistica senza precedenti ed è a loro che si deve la nuova credibilità conquistata dal Paese». Della serie: non sono insostituibile, non è vero che dopo di me ci sarà il diluvio.
Per il premier che verrà (dunque forse anche per se stesso), Monti lavora anche per evitare il commissariamento del Paese. Per questa ragione continua a ripetere che «l’Italia deve fare da sola», che non «serve alcun salvataggio». Né del Fondo salva-Stati, né tanto meno del Fmi. La ragione è semplice: qualunque intervento a sostegno dell’Italia porterebbe con sé un «programma». Con riforme e timing dettati dalla Commissione europea, Banca centrale e Fondo monetario internazionale. E se così fosse, chiunque andrà a palazzo Chigi dopo le elezioni sarebbe costretto a lavorare sotto dettatura di una famigerata troika.
di Alberto Gentil