COSTI DELLA CASTA
Stipendi della Camera, ecco come la Boldrini li ha salvati
12/07/2013
Laura Boldrini
Il Parlamento italiano è l’unico posto di lavoro al mondo in cui esiste la «indennità di immissione dati». Significa che gente già pagata in modo ottimo e abbondante viene ulteriormente compensata per il sacrificio che compie nell’usare normalissimi computer. Cosa che nel terziario più o meno avanzato fanno tutti da una ventina d’anni, e che ormai è prassi comune anche nella Sierra Leone e nello Yemen meridionale. Ma il Parlamento italiano è un luogo dell’Altrove, un extramondo fuori dal tempo e dallo spazio. Una barriera invisibile impedisce alla crisi di entrare dentro al Palazzo: quelli che lavorano lì dentro non hanno idea di cosa sia. Non è colpa loro, è che quando si hanno certi stipendi risulta difficile provare empatia per gli sventurati abitanti del pianeta Terra. Il segretario generale della Camera, che di nome fa Ugo Zampetti, ha un imponibile annuo di 405.000 euro; i vicesegretari generali, due signori che si chiamano Guido Letta(cugino di Enrico, ma ovviamente è un caso) e Aurelio Speziale, quotano 305.000 euro.
Sono solo gli esempi più clamorosi del Bengodi di Montecitorio. Ne vedremo altri. Prima, però, è il caso di raccontare quello che avviene in questi giorni alla Camera dei deputati. Dove la situazione è tesissima e la rivolta pare dietro l’angolo. Se però pensate che c’entrino il governo, le disavventure giudiziarie di Berlusconi e l’incavolatura del Pdl, sbagliate di brutto. Il dramma ruota attorno ai tagli alle prebende. Tagli è una parola grossa, per carità. Però Zampetti qualcosa deve combinare, per fare contenta Laura Boldrini. Niente di cruento, figuriamoci. Giusto qualche ritocchino qua e là, ma tanto basta a scatenare le undici sigle sindacali che rappresentano i 1.551 dipendenti della Camera.
Succede, insomma, che Zampetti stia cercando la riconferma. Sarebbe potuto andare al Quirinale, a fare il segretario generale al posto di Donato Marra, che fu proprio il predecessore di Zampetti a Montecitorio. Un incarico al quale Zampetti ha tutto il diritto di aspirare, e che però non gli è stato assegnato perché il bis di Giorgio Napolitano ha comportato la conferma di Marra. Così ora Zampetti, che ricopre l’incarico alla Camera dall’11 novembre del 1999, quando presidente della Camera era Luciano Violante, vuole restare per altri due o tre anni. Può farcela, perché è uno potente: quando la deputata radicale Rita Bernardini presentò un ordine del giorno per farlo rimuovere, fu respinto dall’assemblea, che confermò Zampetti con un plebiscito. Lasciato sul trono da Pier Ferdinando Casini, Fausto Bertinotti e Gianfranco Fini, adesso è chiamato a convincere la Boldrini. E per riuscirci deve dare una limatina ai costi di Montecitorio, con la quale la presidente della Camera possa farsi bella. Era stata lei, appena insediata, a promettere la fine della pacchia: «I tagli alle spese sono un segnale importante. Né io né Grasso apparteniamo alla casta». Ora si è capito che il risultato, se mai ci sarà, non sarà all’altezza della premessa.
Eppure lardo da tagliare Zampetti ne avrebbe tantissimo. Il bilancio 2013 della Camera dei deputati è di 1.062.377.000 euro, dei quali 784.480.000 (oltre i tre quarti, quindi) se ne vanno in stipendi e pensioni per gli onorevoli deputati e per il personale in servizio. Per i dipendenti, in particolare, l’amministrazione di Montecitorio prevede di spendere nell’anno in corso 231.140.000 euro alla voce «retribuzioni» e 48.855.000 euro per i contributi previdenziali, mentre 217.505.000 euro se ne vanno sotto forma di assegni di pensione versati agli ex lavoratori. Il tutto al netto degli oneri accessori, come le imposte. Se si vuole fare un briciolo di spending review, è da qui che bisogna iniziare.
Il progetto allo studio del segretario generale della Camera parte dalle cosiddette «indennità di incarico», per le quali nel 2013 sono stati messi a bilancio 4.490.000 euro. Si dividono in indennità di funzione, di cui godono circa 500 addetti, e indennità di natura contrattuale, che vanno a vantaggio di 235 dipendenti. Tra queste ultime figurano la indennità di rischio, quella meccanografica e quella per la immissione dati. L’idea consisterebbe nel tagliare del 40% le indennità di funzione, cosa che può essere fatta dall’ufficio di presidenza senza trattare con i sindacati (risparmio annuo previsto: 1,5 milioni) e dimezzare l’indennità di rischio, che consentirebbe minori spese per 300mila euro. A norma di contratto, però, quest’ultimo intervento può essere fatto solo d’intesa con i sindacati interni. Cioè al termine di una vertenza dall’esito incerto e che comunque durerebbe mesi. Lo stesso vale per le ricche indennità di missione (valgono 250mila euro l’anno), che si sogna di tagliare, e per le indennità di lavoro notturno e festivo (1,3 milioni), che Zampetti auspica di dimezzare: in ambedue i casi, occorre passare sotto le forche caudine delle trattative sindacali.
Capitolo a parte merita la storia dei cosiddetti «aumenti biennali terminali». La carriera del dipendente di Montecitorio, infatti, prevede un’ascesa continua per anzianità sino al raggiungimento dell’ultima classe stipendiale. Arrivati a questa casella, i fortunati vedono la busta paga aumentare del 2,5% ogni biennio, ad eccezione del primo, in cui l’aumento è del 5%. Questo oltre al normale adeguamento Istat all’indice d’inflazione, ça va sans dire. Accade così che un semplice operatore tecnico di Montecitorio, categoria alla quale appartengono gli addetti ai telefoni che rispondono al centralino, dopo 25 anni abbia un reddito imponibile lordo di 111.315 euro. O che un ragioniere (impiegato di quarto livello) arrivi a quota 193.641 euro. Solo dimezzare l’entità di questi aumenti biennali garantirebbe un risparmio di 600.000 euro nel 2014. Ma anche in questo caso occorre venire a patti con le bellicose organizzazioni sindacali. La stessa logica di aumenti biennali del 2,5%, peraltro, è applicata ai già generosi stipendi iniziali del segretario generale della Camera e dei suoi vice. A conti fatti, i tagli ai costi del personale che la Boldrini si prepara a sbandierare, ammesso che vengano davvero tradotti tutti in pratica (ipotesi improbabile, visti gli ostacoli), sarebbero una carezza sulle buste paga pubbliche più pingui d’Italia.
Resta da raccontare della storia del cumulo delle pensioni, anch’essa istruttiva. Come visto, ogni anno la Camera (ma meglio sarebbe dire: il contribuente) paga agli ex dipendenti pensioni per oltre 217 milioni di euro. Di questi, 3,3 milioni vanno a un gruppetto di anziani fortunati: dodici pensionati di Montecitorio che lavorano nella presidenza della Repubblica, nella Consulta, nel Consiglio di Stato e in alcune università statali. Fatti i conti, ognuno di questi, in media, incassa dalla Camera 275.000 euro di pensione l’anno, che sommati allo stipendio garantito dalla nuova occupazione fanno di loro i vecchietti più ricchi d’Italia. Tra costoro c’è il solito Marra, che unisce alla pensione di Montecitorio uno stipendio, pagato dalla presidenza della Repubblica, pari a quello di un consigliere di Stato integrato da una indennità di funzione e che, spiegò due anni fa lo stesso Marra al Corriere della Sera, ammonta «al netto delle ritenute fiscali e previdenziali ad euro 294.315 in ragione d’anno».
Trattamenti economici difficili da giustificare, tanto più in un periodo di vacche magre scannate come questo. Così gli uffici della Camera stanno timidamente valutando l’ipotesi di vietare il cumulo tra pensione e redditi di lavoro. In pratica, l’assegno erogato da Montecitorio verrebbe decurtato dell’intero stipendio incassato dal grand commis per il lavoro svolto in altri rami della pubblica amministrazione. Lo stesso Zampetti ha però messo in guardia che non si tratterebbe di un risparmio sicuro. Il nonnino potrebbe decidere infatti di smettere di lavorare: chi glielo fa fare, se non ne ha alcun vantaggio economico? Se tutti si comportassero così, il bilancio di Montecitorio non ne avrebbe alcun giovamento. E poi, manco a dirlo, anche in questo caso ci sarebbe il problemino dei sindacati, con i quali andrebbe raggiunta un’intesa. Risparmio incerto, beghe contrattuali a non finire: l’impressione è che Marra e i suoi undici amici possano continuare tranquilli ad accumulare megastipendi a maxipensioni. E che quando Zampetti prenderà la stessa strada del suo predecessore, nulla rispetto ad oggi sarà cambiato.
Sono solo gli esempi più clamorosi del Bengodi di Montecitorio. Ne vedremo altri. Prima, però, è il caso di raccontare quello che avviene in questi giorni alla Camera dei deputati. Dove la situazione è tesissima e la rivolta pare dietro l’angolo. Se però pensate che c’entrino il governo, le disavventure giudiziarie di Berlusconi e l’incavolatura del Pdl, sbagliate di brutto. Il dramma ruota attorno ai tagli alle prebende. Tagli è una parola grossa, per carità. Però Zampetti qualcosa deve combinare, per fare contenta Laura Boldrini. Niente di cruento, figuriamoci. Giusto qualche ritocchino qua e là, ma tanto basta a scatenare le undici sigle sindacali che rappresentano i 1.551 dipendenti della Camera.
Succede, insomma, che Zampetti stia cercando la riconferma. Sarebbe potuto andare al Quirinale, a fare il segretario generale al posto di Donato Marra, che fu proprio il predecessore di Zampetti a Montecitorio. Un incarico al quale Zampetti ha tutto il diritto di aspirare, e che però non gli è stato assegnato perché il bis di Giorgio Napolitano ha comportato la conferma di Marra. Così ora Zampetti, che ricopre l’incarico alla Camera dall’11 novembre del 1999, quando presidente della Camera era Luciano Violante, vuole restare per altri due o tre anni. Può farcela, perché è uno potente: quando la deputata radicale Rita Bernardini presentò un ordine del giorno per farlo rimuovere, fu respinto dall’assemblea, che confermò Zampetti con un plebiscito. Lasciato sul trono da Pier Ferdinando Casini, Fausto Bertinotti e Gianfranco Fini, adesso è chiamato a convincere la Boldrini. E per riuscirci deve dare una limatina ai costi di Montecitorio, con la quale la presidente della Camera possa farsi bella. Era stata lei, appena insediata, a promettere la fine della pacchia: «I tagli alle spese sono un segnale importante. Né io né Grasso apparteniamo alla casta». Ora si è capito che il risultato, se mai ci sarà, non sarà all’altezza della premessa.
Eppure lardo da tagliare Zampetti ne avrebbe tantissimo. Il bilancio 2013 della Camera dei deputati è di 1.062.377.000 euro, dei quali 784.480.000 (oltre i tre quarti, quindi) se ne vanno in stipendi e pensioni per gli onorevoli deputati e per il personale in servizio. Per i dipendenti, in particolare, l’amministrazione di Montecitorio prevede di spendere nell’anno in corso 231.140.000 euro alla voce «retribuzioni» e 48.855.000 euro per i contributi previdenziali, mentre 217.505.000 euro se ne vanno sotto forma di assegni di pensione versati agli ex lavoratori. Il tutto al netto degli oneri accessori, come le imposte. Se si vuole fare un briciolo di spending review, è da qui che bisogna iniziare.
Il progetto allo studio del segretario generale della Camera parte dalle cosiddette «indennità di incarico», per le quali nel 2013 sono stati messi a bilancio 4.490.000 euro. Si dividono in indennità di funzione, di cui godono circa 500 addetti, e indennità di natura contrattuale, che vanno a vantaggio di 235 dipendenti. Tra queste ultime figurano la indennità di rischio, quella meccanografica e quella per la immissione dati. L’idea consisterebbe nel tagliare del 40% le indennità di funzione, cosa che può essere fatta dall’ufficio di presidenza senza trattare con i sindacati (risparmio annuo previsto: 1,5 milioni) e dimezzare l’indennità di rischio, che consentirebbe minori spese per 300mila euro. A norma di contratto, però, quest’ultimo intervento può essere fatto solo d’intesa con i sindacati interni. Cioè al termine di una vertenza dall’esito incerto e che comunque durerebbe mesi. Lo stesso vale per le ricche indennità di missione (valgono 250mila euro l’anno), che si sogna di tagliare, e per le indennità di lavoro notturno e festivo (1,3 milioni), che Zampetti auspica di dimezzare: in ambedue i casi, occorre passare sotto le forche caudine delle trattative sindacali.
Capitolo a parte merita la storia dei cosiddetti «aumenti biennali terminali». La carriera del dipendente di Montecitorio, infatti, prevede un’ascesa continua per anzianità sino al raggiungimento dell’ultima classe stipendiale. Arrivati a questa casella, i fortunati vedono la busta paga aumentare del 2,5% ogni biennio, ad eccezione del primo, in cui l’aumento è del 5%. Questo oltre al normale adeguamento Istat all’indice d’inflazione, ça va sans dire. Accade così che un semplice operatore tecnico di Montecitorio, categoria alla quale appartengono gli addetti ai telefoni che rispondono al centralino, dopo 25 anni abbia un reddito imponibile lordo di 111.315 euro. O che un ragioniere (impiegato di quarto livello) arrivi a quota 193.641 euro. Solo dimezzare l’entità di questi aumenti biennali garantirebbe un risparmio di 600.000 euro nel 2014. Ma anche in questo caso occorre venire a patti con le bellicose organizzazioni sindacali. La stessa logica di aumenti biennali del 2,5%, peraltro, è applicata ai già generosi stipendi iniziali del segretario generale della Camera e dei suoi vice. A conti fatti, i tagli ai costi del personale che la Boldrini si prepara a sbandierare, ammesso che vengano davvero tradotti tutti in pratica (ipotesi improbabile, visti gli ostacoli), sarebbero una carezza sulle buste paga pubbliche più pingui d’Italia.
Resta da raccontare della storia del cumulo delle pensioni, anch’essa istruttiva. Come visto, ogni anno la Camera (ma meglio sarebbe dire: il contribuente) paga agli ex dipendenti pensioni per oltre 217 milioni di euro. Di questi, 3,3 milioni vanno a un gruppetto di anziani fortunati: dodici pensionati di Montecitorio che lavorano nella presidenza della Repubblica, nella Consulta, nel Consiglio di Stato e in alcune università statali. Fatti i conti, ognuno di questi, in media, incassa dalla Camera 275.000 euro di pensione l’anno, che sommati allo stipendio garantito dalla nuova occupazione fanno di loro i vecchietti più ricchi d’Italia. Tra costoro c’è il solito Marra, che unisce alla pensione di Montecitorio uno stipendio, pagato dalla presidenza della Repubblica, pari a quello di un consigliere di Stato integrato da una indennità di funzione e che, spiegò due anni fa lo stesso Marra al Corriere della Sera, ammonta «al netto delle ritenute fiscali e previdenziali ad euro 294.315 in ragione d’anno».
Trattamenti economici difficili da giustificare, tanto più in un periodo di vacche magre scannate come questo. Così gli uffici della Camera stanno timidamente valutando l’ipotesi di vietare il cumulo tra pensione e redditi di lavoro. In pratica, l’assegno erogato da Montecitorio verrebbe decurtato dell’intero stipendio incassato dal grand commis per il lavoro svolto in altri rami della pubblica amministrazione. Lo stesso Zampetti ha però messo in guardia che non si tratterebbe di un risparmio sicuro. Il nonnino potrebbe decidere infatti di smettere di lavorare: chi glielo fa fare, se non ne ha alcun vantaggio economico? Se tutti si comportassero così, il bilancio di Montecitorio non ne avrebbe alcun giovamento. E poi, manco a dirlo, anche in questo caso ci sarebbe il problemino dei sindacati, con i quali andrebbe raggiunta un’intesa. Risparmio incerto, beghe contrattuali a non finire: l’impressione è che Marra e i suoi undici amici possano continuare tranquilli ad accumulare megastipendi a maxipensioni. E che quando Zampetti prenderà la stessa strada del suo predecessore, nulla rispetto ad oggi sarà cambiato.
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